venerdì 18 maggio 2007

Le amnesie di Capobianco

Le curiose amnesie del dirigente juventino che accusa Moggi
di EMILIO CAMBIAGHI per Libero

Il testimone dell'esecuzione (sommaria) della Juventus si chiama Maurizio Capobianco, uomo per una stagione sola, quella del dopo Calciopoli, degli improvvisi ritorni di memoria e, molto probabilmente, delle vendette. Il pretesto è un'intervista ad opera di Marco Mensurati apparsa su "Repubblica" venerdì scorso, nella quale l'ex dirigente juventino Capobianco racconta le sue verità da insider.
Il titolo ("Così Moggi comprava gli arbitri") è perentorio, i contenuti quantomeno controversi, ma tanto è bastato per scatenare i pruriti dei campioni dell'esegesi unilaterale. Tuttavia, laddove ci si illude di leggere le prove del condizionamento moggiano, si potrebbe in realtà smascherare l'ennesimo tentativo di giustificare gli esiti - sempre più traballanti - delle sentenze rupersandulliane. Capobianco fu licenziato dalla Juventus giraudiana nel settembre 2005 - circostanza che lo ha spinto a citare la società in giudizio per mancanza di giusta causa - ed è curioso che sciolga la lingua soltanto ora, a dodici mesi dallo "scandalo", per raccontare birbantaggini di molti anni addietro. Singolare poi il risalto mediatico e l'immediato credito concesso ad accuse provenienti da chi, preparando un'udienza in Tribunale, dovrebbe scegliere il silenzio invece che captar benevolenza e seminare zizzania Scorrendo tra le domande e le risposte dell'intervista si incontrano persone, si toccano temi e si formulano accuse che, a guardarle bene, tutto paiono fuorché illeciti sportivi. Si comincia con i giornalisti («la Juve aveva consulenze molto ricche con società vicine ad alcuni di loro. Almeno in un caso, a inizio stagione si stipulava un contratto per studiare dei progetti di comunicazione») e sorprende che il reo confesso, penna del Messaggero Veneto - il quale, coincidenza, figura nel medesimo gruppo editoriale di Repubblica - si dica ignaro di certi meccanismi che governano oggi le logiche di comunicazione. E converrebbe comunque sempre fare nomi e cognomi, anziché parlare di società "vicine" ad "alcuni" giornalisti che, giova ricordarlo, non scendono in campo né in veste di arbitri né di goleador. Dalla carta stampata si passa ai tifosi, medaglia e rispettivo rovescio dello showbusiness calciofilo, sotterraneamente finanziati dalla Semana srl, società di engineering e management secondo Capobianco facente capo ad Antonio Giraudo. Peccato che, rovistando nel mare delle visure camerali e nel gorgo delle fiduciarie, si apprenda come tale impresa sia controllata e gestita da Franzo Grande Stevens (e dai suoi figli), persona assai poco in sintonia con il manager torinese. L'esistenza di flussi di denaro tra (tutte) le società sportive e i gruppi ultrà non è certo notizia che coglie impreparati né, ulteriore memorandum, è pratica che consente di ottenere vantaggi in termini di gioco e di classifica. Il tutto condito da un sospetto lapsus temporale che intervistato (o intervistatore?) si lascia sfuggire sull'argomento: come può uno che ha ricevuto il benservito nel settembre 2005 raccontare fatti relativi all'anno seguente («fino a quando c'ero io, ovvero marzo 2006»)? Nel mazzo delle accuse non manca ovviamente la carta Gea World (250.000 euro pagati attraverso una società di comodo), il jolly da sfoderare in caso di impaccio, e nemmeno un riferimento alle schede svizzere: la potentissima Juventus che, non riuscendo a giustificare l'uscita di poche migliaia di euro per l'acquisto delle tessere - neppure questo è un reato - si trova costretta a commerciare in orologi per pareggiare l'ammanco. C'è poi una macchina in regalo al dirigente messinese Fabiani (gli amici esistono, o no?) che, caso davvero unico al mondo, è con Luciano Moggi la sola persona considerata colpevole prima ancora di essere non solo giudicata, bensì processata. Ma manca ancora la pistola fumante, la mano nella marmellata, il riscontro inequivoco del peccaminoso vortice di illeciti in cui roteava la Juventus pre-cobolliana. Ed eccola servita, la prova: «quattro casi in cui la Juve ha fatto arrivare beni di ingente valore a due arbitri italiani, a un esponente della Figc, e a uno della Covisoc». Sembra il momento decisivo, ma sul più bello il climax si interrompe, per lasciare spazio alle rettifiche. I nomi delle persone coinvolte sono ignoti, i beni di "ingente valore" anche, il periodo indefinito (pare il 1995), le modalità di recapito per lo meno nebulose: beni monetizzabili "consegnati" da società "terze" a soggetti "terzi", legati ad arbitri (sine nomen) da "rapporti di parentela" (fratelli? Cognati? Zii? Bisnonni?). Un percorso da far invidia alla teoria dei sei gradi di separazione. C'è spazio anche per Pairetto, che "era di casa alla Juventus" (niente di nuovo, Facchetti lo era con Bergamo, Paparesta e Collina con Galliani, Carraro con Berlusconi, Petrucci con Moratti), il quale avrebbe "ricevuto" una moto che "pare" non sia stata restituita. Correva il 1999. Da premiare il tempismo dei dirigenti juventini: da lì in avanti uno scudetto al Milan, uno alla Lazio (con l'ombra di Veron e il pantano di Perugia) e uno alla Roma (con le regole cambiate in corsa e una certa compiacenza arbitrale). Ed eccoci al punto di partenza, con i soliti dubbi, le medesime perplessità e la pistola ancora fredda, immobile: qualcosa, in Calciopoli, continua a lasciare l'amaro in bocca, come una sensazione di conti che non tornano. Perché questo indefesso accanimento nella ricerca della prova, della dimostrazione inattaccabile e inconfutabile? Non avevano forse già tutto provato, sancito e ceralaccato le sentenze dei tribunali sportivi? Delle due l'una: o è spuntata una coda di paglia oppure, alla fine, il seme del dubbio ha preso a maturare anche nella testa degli accusatori.

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