sabato 12 aprile 2008

Sir Capello



Shall we speak english?
«In italiano, per favore».
Non parla ancora inglese?
«Sto migliorando ma preferisco procedere step by step».
Fabio Capello, friulano, da dicembre scorso è l’allenatore della Nazionale inglese. Appena nominato ha detto che in un mese avrebbe parlato la lingua. Con i calciatori dice di farlo già («il linguaggio del football è più semplice»), ma per i tabloid britannici il suo inglese è ormai oggetto di burle. L’ultima è del “Sun”, che come pesce d’aprile ha pubblicato un articolo in cui scrive che il ct, non essendo in grado di comunicare con i giocatori, ha chiesto loro di imparare l’italiano.
Lo incontro in Italia dove è venuto anche per testimoniare nel processo contro la Gea, la società di procuratori, coinvolta nello scandalo di Calciopoli. All’epoca dei fatti Capello era l’allenatore della Juventus. Seduti vicini sul sedile posteriore dell’auto, mentre lo intervisto, si interrompe di continuo per correggere chi guida.
«Per piazzale Corvetto devi andare a destra, poi dritto».
E ancora:
«No, perché giri qui? Più avanti, ti ho detto che dovevi andare dritto».
Due ore prima mi aveva rimproverata per avergli dato indicazioni imprecise su come arrivare al ristorante. Capello è così («Rigido, dice mia moglie»), ma non antipatico. Mentre parliamo, le rughe d’espressione del viso si allargano spesso in un sorriso. È un bell’uomo, ha una chioma folta, occhiali di design e gusto nel vestire. Anche se il meglio di sé lo offre in jeans e maglietta. Che fisico asciutto. Come fa a mantenersi in forma?
«Faccio attenzione a quello che mangio. Dal giorno dopo aver smesso di giocare ho dimezzato le calorie, poi le ho ridotte a un terzo».
Eppure si dice che ami la buona cucina.
«Molto, e anche i buoni vini. Ma tutto con moderazione, non mi sono mai abbuffato in vita mia, di niente».
Però è amico di Moggi, che, secondo l’accusa, avrebbe fatto abbuffare la Juventus di vittorie non proprio pulite.
«Sono amico non solo di Moggi, ma anche di Bettega e Giraudo. Del sistema Moggi io non mi sono mai accorto. I risultati della Juventus sono stati ottenuti regolarmente sul campo, da me e dai giocatori, soffrendo e lottando. I pasticci arbitrali peraltro mi sembra ci siano anche quest’anno; però, ora che non è più la Juve a vincere, tutti sono d’accordo nel chiamarli errori. E comunque, la più bella risposta a Calciopoli l’hanno data i giocatori, vincendo il Mondiale».
L’esistenza del sistema Moggi, però, è provata dalle intercettazioni.
«Nell’anno del secondo scudetto, quello che ci hanno tolto, non c’era nessuna intercettazione. Comunque, se la giustizia dice che Moggi e gli altri hanno fatto qualche errore è giusto che paghino, ma restano amici. Tra noi non c’era solo un rapporto di lavoro: uscivamo a cena insieme, o con le nostre mogli, e non si possono cancellare certe cose. Insomma, se uno sbaglia per me non è automaticamente morto».
Eppure era stato proprio lei, da allenatore della Roma, ad accusare Moggi di uno strapotere sul mercato del calcio.
«Non parlavo solo della Juve, ma anche di Milan e Inter. Quando allenavo la Juventus, invece, non mi occupavo direttamente del mercato».
Durante la testimonianza nel processo contro la Gea, principale imputato Moggi, il pm l’ha accusata però di reticenza e ora rischia un’imputazione per falsa testimonianza.
«Mi ha molto sorpreso. Ero già stato sentito dal pm come testimone durante l’inchiesta e in occasione del processo ho ripetuto le stesse cose che gli avevo già detto. Sono convinto che tutto si sistemerà presto».
Nei mesi scorsi ha avuto guai anche con il fisco. Non c’è il rischio che gli inglesi si irritino per tutti questi problemi giudiziari, vista anche la fama della stampa britannica?
«Rispondo alla Football Association e con loro mi sono chiarito. Se c’è una cosa che ho sempre detto ai miei consulenti è che non volevo finire in prima pagina per problemi con il fisco, invece è successo. Siccome sono ultraconvinto che tutto sia stato fatto in maniera corretta, sono tranquillo. Poi, certo: i media inglesi sono concentrati sul ct della Nazionale, forse troppo, e non me l’aspettavo. Ma lì qualunque giornale ha almeno tre pagine di sport e forse c’è pressione perché sono decenni che non vincono nulla».
Non sarà che un allenatore straniero dà fastidio?
«Può darsi. Ma il mio obiettivo oggi è capire che giocatori mettere in campo per le qualificazioni ai Mondiali».
È vero che allenare in Inghilterra era il suo sogno?
«Sì. Ho sempre pensato che avrei chiuso la carriera allenando una Nazionale, l’Inghilterra era per me un’idea fissa. Il calcio inglese è più fisico, ma allo stesso tempo c’è più in campo. Gli stadi sono sempre pieni, famiglie che possono andare sugli spalti indossando la maglia della squadra del cuore. C’è il tifo, ma quando finisce la partita sono tutti sereni».
In Italia la situazione è diversa. La settimana scorsa è morto un altro ragazzo, un tifoso del Parma, travolto da un pullman di juventini in un autogrill.
«In Italia non c’è la volontà politica di risolvere il problema della sicurezza. Il calcio è lo specchio del nostro governo: nessuno vuole prendere decisioni impopolari per quanto utili. Non si capisce perché solo in Italia i tifosi godono della totale impunità; in Inghilterra se tiri una bottigliata vai in galera, qui no. Quando prendono provvedimenti non durano più di un mese. Per questo gli stadi in Italia sono mezzi vuoti: fanno una gran tristezza. Se non puoi portare alla partita un bambino, lui non si innamorerà mai di quel gioco».
Lei i suoi figli li portava allo stadio?
«Sì, ma Pierfilippo, il maggiore, allo stadio leggeva».
Come allenatore ha mai subito episodi di violenza?
«Verbale sicuramente. Soprattutto quando ho lasciato la Roma per la Juve; per i due anni successivi quando andavo nella capitale mi era stato chiesto di avvisare la polizia per evitare incidenti».
Per questo ha dichiarato di non voler allenare la Nazionale italiana?
«Questo sarà il mio ultimo incarico, sono vecchio. E comunque non mi ha mai stimolato l’idea di allenare l’Italia. Che, peraltro, mi sembra sia in buone mani».
Veramente dicono che Donadoni rischi il posto.
«Donadoni sta andando benissimo, si è qualificato per gli Europei: più di così che cosa doveva fare? Mi piace Donadoni, mi piace Lippi, mi piacciono le persone serie che non vendono fumo e che raggiungono risultati concreti».
Si dice che lei dia regole severe ai suoi giocatori: rispetto degli orari, niente sesso prima delle partite.
«Non sono severo. Semmai esigente e per il poco tempo che stiamo insieme ci tengo al rispetto delle regole, perché significano rispetto per me e per i compagni di squadra. Poi sono disponibile a tutti i giochi e agli scherzi che si possano immaginare».
Ha avuto in squadra anche teste calde. Penso a Cassano quando eravate alla Roma.
«Cassano è un caso a parte. È forse il più grande talento italiano degli ultimi anni e si sta rovinando con le sue mani. È un ragazzo buonissimo, generoso, ma ogni tanto “sbrocca” e fa cose incontrollabili, diventa ingestibile. Alla Roma ci abbiamo provato, avevo un bel rapporto con lui, ma ci siamo arresi. Ti dà ragione e poi dopo dieci minuti è come prima».
Ha fatto la pace invece con Beckham, che con lei al Real Madrid ebbe qualche incomprensione? Grazie a lei ha raggiunto la sua centesima presenza in Nazionale.
«David nella realtà è un ragazzo completamente diverso dalla sua immagine pubblica, che evidentemente risponde ad altre logiche. Generoso, educato, l’ho visto firmare centinaia di autografi ai ragazzini».
Dà confidenza ai giocatori?
«No, perché ti si può ritorcere contro quando decidi di vendere un giocatore. Ma ho sempre cercato di aiutare i giovani perché io stesso sono andato via di casa a 15 anni e capisco le difficoltà di chi inizia a giocare. Le faccio un esempio: una volta un calciatore, si allenava già in prima squadra, mi dice: “Senta mister, io d’ora in poi non vengo più a giocare perché vado a suonare”. Gli ho chiesto se ci aveva pensato bene perché aveva le qualità, poi gli ho detto: “Vai, ma sappi che quando vuoi tornare la porta per te è sempre aperta”. Dopo 40 giorni è tornato e l’abbiamo riaccettato».
Chi era?
«Il nome non lo dico ma le assicuro che sta facendo una bella carriera. Con i calciatori mi sono sempre comportato come con i figli: io ci sono, ma li lascio liberi di fare le loro scelte. Infatti i miei a 21 anni erano già fuori casa, i trentacinquenni a casa con papà e mamma non vanno bene».
Che padre è stato?
«Non assillante. Mia moglie li seguiva di più».
Come descriverebbe sua moglie Laura?
«Una donna tranquillissima, maestra, che si è dedicata come missione a fare la casalinga e a tirare su i figli. L’ha fatto con gioia e l’ha fatto molto bene; sono due bravi ragazzi. Uno fa l’avvocato e l’altro l’analista finanziario».
Li avrebbe voluti calciatori?
«Hanno provato ma non avevano molta attitudine».
L’ha capito subito?
«Sì. Allora gli ho detto che era meglio che studiassero».
Lei si è diplomato geometra mentre giocava a calcio. Le è dispiaciuto non fare l’università?
«Sì. Se ci fosse stato l’Isef forse avrei fatto quello. Oppure Architettura».
So che è un collezionista d’arte moderna. Come è nata questa passione?
«Merito di Italo Allodi, quando lui era dirigente della Juve e io giocavo in bianconero. Avevo 24 anni, lui era socio in una galleria di Milano e un giorno ha portato me e altri giocatori a vedere dei quadri, avvicinandomi all’arte. Sia io che Bettega siamo diventati collezionisti».
È vero che i calciatori ai suoi tempi erano più colti?
«Non saprei. Di certo ai nostri tempi non c’erano le veline e gli ingaggi erano diversi. Quando giocavo io, a fine carriera potevi sperare di avere due appartamenti e una tabaccheria, adesso chi riesce ad arrivare in alto si è sistemato per la vita. Ma io ho avuto la fortuna di beccare il momento buono come allenatore, quindi non mi lamento».
Ha ricordi dell’Avvocato quando lei giocava nella Juve?
«Mi ricordo che veniva a trovare noi giocatori a Villar Perosa, ci salutava, diceva due o tre battute fulminanti, e ripartiva con l’elicottero. Per spiegarti una cosa non ci metteva mezz’ora, era diretto e conciso come piace a me».
E Berlusconi? È stato lui a lanciarla come allenatore.
«Se l’Avvocato era un vulcano di sentenze, Berlusconi è un vulcano di idee, grande carisma. Berlusconi poi lo conosco meglio, con lui ho avuto un vero rapporto di lavoro».
Le piace anche come politico?
«Penso che sia uno bravissimo quando fa da solo. Quando deve accontentare tutti meno».
Lo voterà?
«Sì. Voterò a Londra, come residente all’estero. In passato ho votato socialista, poi la Lega come movimento di ribellione, la politica mi interessa molto. E, vivendo all’estero, soffro nel vedere gli altri Paesi correre e noi camminare appena, bloccati dalla burocrazia e dai sindacati su decisioni che dovrebbero essere ovvie per il progresso di un Paese».
Veltroni lo conosce?
«Sì. È una persona che ha fatto cose importanti a Roma, abbiamo un buon rapporto ma idee politiche diverse».
È vero che è molto religioso?
«Molto, vado sempre a messa».
Con sua moglie vi siete sposati giovanissimi. L’ha sempre seguita nei suoi spostamenti?
«Sì, non ho mai passato più di una settimana da solo. Gli alberghi mi fanno tristezza, ho bisogno della casa. Il nostro problema sono i traslochi, ne abbiamo fatti troppi».
Chi frequentate a Londra?
«Usciamo spesso per andare a concerti e a teatro, la nostra passione. Ma abbiamo anche degli amici, come Giraudo, che vive lì da un paio d’anni, e Briatore. Lui è spesso in giro per la Formula Uno, ma quando non è a Londra parliamo al telefono».
Sua moglie è gelosa?
«Sì. Ma ha il pregio di non essere mai voluta apparire».
Il periodo più bello della sua vita?
«Non vivo di ricordi, mai; in casa mia non c’è una coppa, una foto in cui giocavo, è tutto nei bauli. Il futuro, quindi».
In Friuli torna mai?«
A Pieris, dove ho vissuto la mia infanzia, a trovare mia mamma. Tutte le volte mi dice: “Ma quando smetti di lavorare?”».
È vero che suo padre è stato in un campo di concentramento durante la guerra?
«Ne ha girati sei diversi. Ne è stato talmente annichilito che non ha mai voluto parlare di quell’esperienza, né con me né con mia madre».
Che effetto le ha fatto sapere che Max Mosley, presidente della Formula Uno, fa orge con «ambientazione nazista»?
«Non ho visto il video, della notizia ho letto solo i titoli sui giornali, quindi non sono in grado di dare un’opinione».
A pallone gioca ancora ogni tanto?
«Dopo aver chiuso la carriera ho giocato solo due volte, per beneficenza. Ma quando mi sono accorto che i soldi andavano da altre parti ho smesso, solo qualche partita con i figli».
Se la cava sempre?
«E certo. Giocare a calcio è come andare in bicicletta. Una volta che impari non te lo dimentichi più».

Vanity Fair (Sara Faillaci)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Il giudice unico della settima sezione civile del Tribunale di Torino ha stabilito che il giornalista Marco Travaglio dovrà risarcire Fedele Confalonieri e Mediaset s.p.a. per un articolo diffamatorio pubblicato su l'Unità il 16 luglio 2006. In quell'articolo aveva sostenuto che Mediaset aveva un ruolo nel "sistema Moggi-Galliani" (parole di Travaglio), condizionando il mondo del calcio pro Milan attraverso la vendita dei diritti televisivi. Per i giudici tale affermazione è falsa e diffamatoria.

GoalKeeper ha detto...

davvero un bel blog!! complimenti!!!